Buona Fortuna coverZorro, Cowboy, Indiano, Sandokan per i maschietti. Fatina, Principessa, Primavera, Spagnola per le femminucce. Questi erano i costumi negli anni Settanta. Non lo straripamento di maschere di adesso, con un tripudio di bambini grotteschi intrappolati in tute pelose, corazze di plastica o mostruosi aggeggi invadenti che minaccerebbero anche l’autocontrollo di un asceta.
«Fai un pezzo di colore sulle maschere di Carnevale di un tempo, il Carnevale dei bambini che oggi hanno quarant’anni» dice Giovanna, la mia caporedattrice.
«A Natale?»
«Sì, a Natale» insiste lei, scegliendo di ignorare la mia espressione allibita e vagamente schifata. A conferma mi elargisce una solida argomentazione. «L’altro ieri mio nipote, mentre facevamo l’albero, ha voluto mettersi il vestito da Carnevale e noi adulti abbiamo cominciato a ricordare i nostri di quando eravamo bambini. Vedi come sono collegabili tutte queste feste, questi momenti di ricordi e di dolce nostalgia? Così ho pensato che potrebbe essere originale scrivere delle maschere di trent’anni fa.»
Come no. Uno è lì che spezzetta il panettone nel caffellatte, sfoglia il quotidiano locale, legge un bell’articolo sul Carnevale e a quel punto o ha la sensazione di aver sfumato due mesi di vita dormendo profondamente o pensa di aver preso per sbaglio il giornale di dieci mesi prima, che teneva per la sabbia dei gatti. Poi scopre che no, è questa giornalista che deve aver coriandoli al posto del cervello. Bella idea, davvero.
Il nipotino è una delle varie mine sparse sul territorio “Giovanna”. Raramente è possibile prevedere su quale argomento mi chiederà di scrivere ma, a seconda di quello che accade nella sua famiglia, possono nascere spunti tra i più sconclusionati. Cosa che in fondo mi diverte, lo ammetto, scongiura la noia, tuttavia, spesso, dà un vago tocco surreale alle pagine di cultura e società del giornale per cui scrivo.
Ho fatto una gavetta di dieci anni prima di approdare alla redazione di un quotidiano, sempre come freelance, non sia mai che a una donna fertile si offra un contratto a tempo indeterminato. Mi sono anche guadagnata una buona reputazione professionale che, in effetti, arbitrarie capriole sul calendario delle festività non dovrebbero compromettere, ma ogni volta il mio istinto è riluttante ad accettare con entusiasmo temi che sembrano pescati a caso da un bussolotto.
Con ciò, mentre fuori impazza la caccia alla strenna, mi concentro sulle maschere.
D’altra parte io per prima sono cresciuta fra tradizioni contaminate, convinta che la pentolaccia fosse una tradizione del mio compleanno, a novembre, e sentendomi ingannata e scippata di un simbolo personale quando ho scoperto che apparteneva legittimamente al Carnevale.
Forse è anche un po’ per questo che sento di avere un conto in sospeso con quel periodo sregolato e sciocco: sdoganava scherzi odiosi che minavano le mie giornate a scuola e aveva il potere di rendere ambite quelle stelle filanti ad anello, quasi sempre incollate, su cui soffiavi fino a farti scoppiare le orecchie mentre la maggior parte delle volte partiva solo un cerchietto di carta che, plof, cadeva a terra davanti a te.
Amavo mascherarmi, però, non senza qualche problema di identità. Il mio preferito era il vestito da Principessa. Non ero una bimba frivola, anzi, ma un giorno sarei diventata una regina, non avevo dubbi in proposito, un po’ perché quel nome ingombrante, Margot, me lo imponeva e un po’ perché non vedevo alternative, a parte la Fata, data la mia certezza di avere poteri magici. Ma c’era Zorro. Zorro era il mio eroe, si vestiva di nero, era un gran figo e combatteva per difendere i deboli dalle ingiustizie.
L’indecisione tra Principessa, Fatina o Zorro portava sempre a un astuto compromesso che mi vedeva vestita da Principessa con poteri magici da Fata che però sotto sotto era anche Zorro, identità segreta che nessuno doveva conoscere.
Il sillogismo “Quindi Zorro era una principessa” l’ho sempre evitato.
Questi ricordi mi offrono l’ispirazione: «Il pezzo lo scrivo come un tema delle elementari, del resto è sul Carnevale dei bimbi di trent’anni fa, chi vuoi che lo legga?».
Giovanna scuote la testa rassegnata. «Dovresti tenere seminari di automotivazione, Margot. Se uno sopravvive a quelli può farcela in qualunque situazione.»
«Potrebbe essere uno spunto per un altro pezzo.»
«Non tentarmi.»
Meglio di no, in effetti, stasera ho bisogno di uscire presto, la dottoressa Rigobelli ha un’agenda inflessibile.

(primo capitolo di Buona fortuna)