hulkStavo aspettando un amico davanti alle Poste, sotto i portici nel pieno centro di Genova, alle quattro e mezza di un venerdì pomeriggio, e come faccio spesso mi distraevo controllando le mail sul blackberry, per cui quando l’uomo è entrato nel mio campo visivo era già a terra e stava terminando il volo sul pavimento liscio di via Dante.

Nel tempo in cui ho voltato la testa per capire cosa stesse succedendo -quindi piuttosto breve- addosso all’uomo atterrato è piombato un altro uomo, con la divisa blu scuro dei controllori dell’Azienda Municipale dei Trasporti pubblici genovese. Lo ha afferrato per il bavero, lo ha rialzato e piantato contro il muro urlandogli contro a un paio di centimetri dal viso.
Accanto a lui, il collega osservava la scena impassibile.
Intorno a loro, i passanti osservavano la scena incuriositi.
L’atterrato-ora-rialzato cercava di divincolarsi con la goffaggine di chi è poco presente a se stesso, forse per uso eccessivo di alcol o droga, non saprei, ma comunque stordito, e bofonchiava dei deboli “Lasciami stare” evitando il contatto visivo (cosa non facilissima, dato la distanza tra i due volti davvero minima).

Un ragazzo, uno dei passanti osservatori, ha deciso a quel punto di intervenire dicendo al controllore di lasciarlo andare, che era un poveraccio, non lo vedeva?
Il controllore si è voltato verso di lui, allentando la presa al tipo che ha colto l’attimo per fuggire via precipitandosi in mezzo alla strada con una corsa stortignaccola e rischiosissima per sé e per gli automobilisti, piuttosto numerosi a quell’ora, arrivando miracolosamente indenne dall’altra parte e scomparendo.

A quel punto la sfida è diventata Controllore Vs. Ragazzo, il quale, senza alzare il tono della voce e tenendo le mani ben ferme ai lati del corpo, non ha avuto alcun problema nel ritrovarsi la faccia di Controllore praticamente attaccata alla propria e a lasciarlo urlare come un rottweiler furioso.
Il dialogo, va detto, non era da oscar per la sceneggiatura.
“E tu che cazzo vuoi?”
“Era un poveraccio, non te la prendere con quelli come lui”
“Ma tu che cazzo vuoi?”
“Lo hai visto? Era un poveraccio”

Avanti così in uno stallo di alcuni minuti che hanno dato tempo ai passanti di formare crocchi e all’autista del bus, fermo lì al capolinea, di scendere e affiancare il collega di Controllore nel seguire la scena, sempre senza intervenire.

Durante uno degli scontri verbali, sono stati forniti al pubblico alcuni elementi in più che hanno lasciato intendere un mancato possesso del biglietto da parte dell’Atterrato, motivo per cui Controllore difendeva il proprio operato con un inconfutabile “Io faccio il mio lavoro e le regole valgono per tutti, non è che possiamo fare distinzioni”. Difficile dargli torto. Doloroso dargli ragione.

I round sono stati molteplici, intervallati da un allontanamento tra i due di pochi attimi, quanto bastava per mettere alcuni metri di sicurezza ma non per far sbollire la rabbia di entrambi: era sufficiente che uno dei due borbottasse qualcosa perché l’altro tornasse a replicare a minima distanza. Devo dire, a onor del vero, che chi non mollava la presa era soprattutto Controllore, al quale Autista ha dato infine manforte.

Il nervosismo era alle stelle, l’adrenalina e il testosterone si sprecavano, e all’ennesimo “Che cazzo vuoi? Fatti i cazzi tuoi. Noi stiamo lavorando!” rivolto a Ragazzo, stavolta da Autista, la risposta è stata più elaborata delle precedenti: “Tu almeno un lavoro ce l’hai, quel poveraccio no, e si vedeva. Lasciate stare la gente così!”.
Su questa battuta finale, il trittico dell’AMT si è saggiamente allontanato per andare a prendersi un caffè prima dello scadere della pausa e Ragazzo è rimasto qualche minuto a sbollire, mentre la platea abbandonava l’arena e tornava al proprio passare.

E’ difficile fare il giudice, è difficile emettere sentenze, non sappiamo cosa sia successo nella scena prima dell’atterraggio di quel poveraccio.
Però c’è innegabilmente stata un’aggressività fuori controllo da parte di chi dovrebbe controllare (e controllarsi) e una reazione forte e decisa da parte di un estraneo che ha preso le parti del poveraccio semplicemente basandosi sull’istinto di difendere il più debole dal più forte.

Be’, io quel ragazzo l’ho ammirato. Avrà torto, avrà ragione, fatto sta che l’ho ammirato.
Perché non è rimasto indifferente a fare il pubblico come tutti noi, ma è intervenuto per difendere ciò che gli sembrava giusto e lo ha fatto senza alzare le mani, senza insultare, senza arretrare di un passo di fronte all’evidente rabbia mal repressa dell’uomo che aveva di fronte.
Il quale, che la sua parte di torto ce l’ha, deve essere piuttosto esasperato per arrivare a reagire in quel modo e dubito che sia esasperato da un balordo che sale sul bus senza biglietto, è palese che quella sia stata la classica goccia.

Ma più di tutto, ciò che mi ha colpito, è stata la chiusura. Quel “Io sto facendo il mio lavoro” e “Tu almeno un lavoro ce l’hai”.
Il livello di disagio sociale che stiamo vivendo è spaventoso, la violenza è in agguato dietro ogni angolo, la lotta è tra gente perbene e “normale”, qualunque cosa significhi normale, che ormai improvvisa ring in pieno centro in un venerdì pomeriggio in quel che si chiama Bel Paese, in una città dell'”operoso nord”.

Io, in Italia, nella mia terra, nella mia città, tra la mia gente, non mi sento più tranquilla, non mi sento più a mio agio. Non mi ritrovo più.