• I lieti fine capitano. Certo, basta non aspettare i titoli di coda o i sequel. Basta non curiosare nei retroscena. Basta crederci.

    Chanel non fa scarpette di cristallo

A metà marzo era prevista una mia presentazione a Roma che, per varie vicissitudini logistico-organizzative, è saltata.

Quando gli imprevisti stravolgono i miei programmi di punto in bianco, se prima vivevo il cambiamento con broncio e disappunto, ora -sarà l’età, sarà l’esperienza- mi siedo comoda e dico ad alta voce “Ok, vediamo perché”, senza trattenere un sorriso. Poi aspetto.
Di solito l’attesa è breve, molto breve. A volte di pochi secondi, quelli sufficienti a guardare i miei appunti a matita sull’agenda, a volte di poche ore, quelli che servono a dare il tempo a un volantino di essermi messo tra le mani da una gentile sconosciuta.

Bene, se in quei giorni fossi stata nella Città Eterna, mi sarei persa due appuntamenti importanti nella Superba a cui, invece, non vorrei proprio mancare.

Giulia Lazzarini

Il 15 marzo, al Teatro dell’Archivolto, andrà in scena un’attrice che io amo molto, Giulia Lazzarini, di cui vi ho già parlato qualche tempo fa in occasione del suo Remake. Questa volta parlerà di un tema molto delicato, quello dei manicomi e delle persone in essi internati, dei drammi umani, delle solitudini, delle diversità in MURI – prima e dopo Basaglia.

 

 

nekrosiusIl 16 e il 17 marzo, al Teatro della Tosse, andrà in scena DIVINA COMMEDIA con la regia di Eimuntas Nekrošius, che torna con la sua compagnia e uno spettacolo in lituano coi sottotitoli in italiano. Non storcete il naso e fidatevi: ho visto così Hamletas, quattro ore di Shakespeare in una lingua aliena, e ad oggi resta lo spettacolo teatrale più bello che io abbia mai visto (interessanti anche il “Cantico dei cantici” e “Anna Karenina”, ma l’Amleto, eh, l’Amleto è qualcosa di straordinario, potente, indimenticabile).

Sono emozioni pure che non mi perderò.
Prendeteli pure come suggerimenti (non ringraziatemi, è un piacere).

A Roma? Be’, a Roma spero di venirci un’altra volta. Restate sintonizzati.

 

Adesso voi, con serenità, chiamate le persone con cui di solito andate al cinema e vi organizzate per andare a vedere Django Unchained.
Non mi interessa se non vi piace Tarantino, se non amavate i western quando era tempo di amarli, se gli schizzi di sangue vi fanno impressione. Son problemi vostri, non fatevi invalidare da queste menate.
Voi andrete a vedere sul grande schermo Django e se ne avete la possibilità cercate di vederlo in lingua originale perché quella storia che i nostri doppiatori sono straordinari era vera fino a una decina di anni fa, o qualcosa di più.

Io, che vado matta, ma proprio matta, roba da brodo di giuggiole e applausini a scena aperta, quando vengono spappolate teste di cattivo, quando c’è una colonna sonora pazzesca, quando gli attori fanno a gara a chi è più bravo, quando Tarantino si diverte -e si vede che si diverte- a fare l’epico e quando vedo Christoph Waltz che per me, da “Inglorious Bastards”, dovrebbe avere ogni mattina un attore diverso che gli allaccia le scarpe, ecco, io ieri sera mi sono goduta questo film con la gioia con cui i miei gatti si godono il grattapancia.

Siamo a gennaio e forse ho già visto il mio film preferito dell’anno.

Freedom

io ci sonoEra inevitabile che a Natale qualcuno mi regalasse …io ci sono, il triplo cd appena uscito nel quale 50 artisti cantano canzoni di Giorgio Gaber.
Avevo accuratamente evitato di metterlo in wish-list e di parlarne, perché se si ama Gaber e si è al contempo dei puristi maniacali inflessibili come me, l’unica parola per definire un’operazione del genere è profanazione.
Ma mi è stato regalato con affetto da persone a cui tengo e poiché mettere una taglia su cinquanta artisti e svariati produttori poteva essere impegnativo, sono scesa nelle segrete umide e buie dove tengo abitualmente incatenata la me tollerante e diplomatica e le ho chiesto un parere.
E’ una bella cosa – ha detto la sciagurata- che così tanti artisti vogliano ricordare il Signor G e rendergli omaggio cantando le sue canzoni. E’ un modo per farlo conoscere a chi non lo ha mai visto o sentito, è un modo per tenere in vita il suo lavoro, è un modo per riconoscere la sua grandezza e consegnarlo all’immortalità“.
Sarà“, mi son detta. A me sa sempre di profanazione, ma magari mi sorprendono“.
Ho richiuso le segrete e sono tornata alla luce, lasciando il cd nel suo cellophane, intatto.

Dopo una decina di giorni, tornando con Isa dalla Slovenia, nelle ultime due ore di viaggio, mi sono fatta forza e le ho chiesto se le andava di ascoltare insieme i tre cd del cofanetto, per capire una buona volta se di omaggio o di scempio si trattasse. E per non essere da sola in quel difficile momento.
Il gioco è stato quello di non leggere chi cantasse e di provare a indovinarlo, ma su questa parte lascerò poi la parola a lei. Vi dico solo che abbiamo riso per 50 canzoni, confondendo Vecchioni con Jannacci, Baglioni con Cocciante, Jannacci con Vasco e non sono sicura che sia totalmente colpa nostra.

Comunque il divertimento non ha attutito la mia infernale sofferenza.
I miei fulmini più impietosi si abbattono su due elementi sostanziali: la scelta delle canzoni -in molti casi incomprensibile, quasi fosse una gara tra chi voleva essere più originale nel scegliere la meno nota- e la linea generale di approccio musicale che le ha spianate quasi tutte, togliendo la verve, la brillantezza e il ritmo che poteva distinguere le une dalle altre.
In una parola: se non conoscete Gaber e non lo amate già, non ascoltate questi cd o vi farete un’idea sbagliata. Se invece lo conoscete e lo amate ascoltateli e fatemi sapere che ne pensate.

E se ci tenete proprio tantissimo a sapere cosa ne penso io, ecco la mia raccolta differenziata.

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Scintille che cadono, che incendiano, che uccidono. Scintille che accendono la paura, le persone e poi, solo poi, le coscienze.

Scintille come quelle che, il 25 marzo 1911, in una fabbrica di camicette a New York, uccisero 146 operai e soprattutto operaie.

Scintille come lo spettacolo del Teatro Cargo, con una bravissima Laura Curino, la perfetta scenografia di Laura Benzi, sempre in sintonia coi costumi di Maria Grazia Bisio, e la regia di Laura Sicignano, autrice del testo. In due parole: il Teatro Cargo.

Io l’ho visto al Teatro Stabile di Genova, ma voi potete recuperare a Genova Voltri, venerdì 16 novembre al Teatro del Ponente, oppure tener d’occhio i cartelloni dei teatri delle vostre città, in attesa che debutti sui palcoscenici a voi vicini.

Salve a tutti, mi chiamo Barbara e fino a ieri non avevo mai visto C’era una volta in America.

I Dii, clementi, mi hanno permesso di colmare l’incresciosa lacuna direttamente al cinema, grazie al ritorno di questo film, in versione digitale, sul grande schermo.

E’ un capolavoro, punto.

Nonostante alcune imperfezioni, nonostante un discutibile finale, nonostante un mediocre doppiaggio italiano (quello attuale), resta un capolavoro che ti tiene inchiodato alla poltrona per quattro ore.

Nient’altro da dichiarare.

Ah, sì, una cosa ci sarebbe: a quelli che hanno l’abitudine di portarsi al cinema pacchetti di patatine o altre prelibatezze e che non si fanno problemi a ravanare in quei sacchetti rumorosi per ore, auguro una leggera enterocolite ogni volta che stanno per comprare il biglietto per lo stesso film che sto andando a vedere io. Niente di grave, giusto un qualcosa che li costringa a correre a casa e chiudersi in bagno per le ore successive. Lì non danno fastidio. Il film possono andarlo a vedere un altro giorno, magari senza mangiucchiare schifezze che sono ancora un po’ disturbati.

L’altra sera sono andata a vedere Paranorman coi miei Amici di Cinema e ne sono uscita facendo meh. Speravo meglio.

E’ un buon film d’animazione, i risultati visivi sono belli e interessanti, ma la storia, il testo e i personaggi sono troppo semplici, dichiaratamente per un target molto, molto giovane (scioccamente, perchè i bambini si divertono un casino anche e soprattutto con storie più complesse, più intelligenti, anche più demenziali o più cattive, i Grimm insegnano).
Infatti, l’ottenne dietro di me, a tre quarti del film, ha esclamato Che cavolata! trovandomi perfettamente d’accordo.

Detto ciò, sono uscita decretando una volta per tutte che a me “i film coi pupazzi” non riescono proprio a convincere. E io adoro il cinema d’animazione, sia chiaro.
Ma un conto è un film della Pixar (sempre sia lode alla Pixar), per dire, un conto è un film “coi pupazzi”. Che io non so niente di queste cose, ma ho capito che quello che io chiamo “il film coi pupazzi” è la stop-motion con oggetti reali. E grazie a wikipedia ho capito un pizzico meglio cosa sia la stop-motion, non è che mi voglia spacciare per una che ne sa, sia chiaro. Oh, è una tecnica interessantissima, per carità, applaudo al lavoro certosino e perfetto, ma…meh.

I miei Amici di Cinema hanno cominciato a pungolarmi col test della coerenza, partendo dal mio punto debole, ossia Tim Burton:
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L’ho visto ieri sera e lo rivedrei subito. Ho riso, riso e ancora riso, godendomi appieno questa spettacolare marvellata e divertendomi come una bambina.

Capisco che non sia un film intellettuale con profonde analisi psicologiche dell’animo umano e della società moderna, capisco che non scandagli i sentimenti o non si basi su pietre miliari della letteratura mondiale, capisco che non faccia alcuna denuncia civile nè che racconti una storia che potrebbe riguardare chiunque di noi, ma non ho alcun problema a dire che è comunque un film grandioso.

Certo, devono piacere i supereroi della Marvel, devono piacere i film fumettosi d’azione e d’avventura, devono piacere le battute veloci, esagerate e un po’ gradasse, devono piacere le citazioni sparse.
Ma dentro questo film ci sono un cast notevolissimo e decenni di storia del fumetto, non stiamo a fare gli intellettuali a vanvera.

Mettere insieme personaggi come Iron Man, Thor, Loki, Capitan America e Hulk non era affatto semplice. Ognuno di loro ha quella che in gergo spocchioso si dice cifra stilistica e che in questo caso è completamente diversa da quella degli altri.
Poteva essere un problema Leggi il resto →

Dai tempi di Se mi lasci ti cancello (titolo originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind) ho rinunciato a capire il criterio delle traduzioni di certi titoli, per cui neanche lo propongo il dibattito su come The Descendants possa essere diventato Paradiso Amaro.

Le cinque nomination all’oscar mi hanno convinta a pagare un biglietto del cinema per vederlo.
Lo dico subito così evitiamo la suspense, accuratamente evitata anche dal regista: Leggi il resto →

Avevo 14 anni ed ero andata a trovare mia mamma che in quel periodo lavorava a Milano. Era gennaio, era il 1984, anno del ginnasio e dei foruncoli, e quel pomeriggio ero stata posteggiata su una poltrona dell’ultima fila di una platea con l’ordine di stare buona e in silenzio.

Era il Piccolo Teatro di Milano e stavo assistendo alla filata della Tempesta, che debuttava quella sera. Giorgio Strehler ordinava a enormi e leggerissimi teli bianchi di imitare le onde del mare, mentre intorno tecnici e attori mettevano in scena la magia.
Non conoscevo ancora Shakespeare e tanto meno capivo quale mostro sacro fosse quel regista, ma ero avvezza a respirare il teatro e sapevo lasciarmi trasportare da lui senza opporre resistenza.
Di quel pomeriggio ricordo le scene, l’agitazione, il rumore di tuoni e pioggia scrosciante e un buffo spiritello bianco che svolazzava impertinente, Ariel. Di quel pomeriggio ricordo la magia del teatro.

Quasi trent’anni dopo, Leggi il resto →

Lo ricordavo come un bel film, l’ho sempre annoverato tra i miei preferiti, fino a un po’ di anni fa lo rivedevo volentieri le volte che passava in tv,  ma sempre con maggiore distrazione e svogliatezza, fino ad archiviarlo tra i Sì, lo conosco, l’ho già visto, bello ma smarcato. Di quelli di cui alla fine hai un ricordo sfumato.
E quando è nata la proposta di approfittare del 9 novembre per vedere l’edizione restaurata sul grande schermo, confesso di esserci andata più a traino che con entusiasmo. Sciocca.
L’importante è che ci sia andata perchè c’è qualcosa di magico in Colazione da Tiffany, a qualunque ora.

Vedere esplodere Audrey Hepburn sul grande schermo, superiore a qualsiasi concetto di bellezza ignorante e chirurgica che impera in questo ventennio, è ambrosia per l’anima e per il senso estetico.
Ma come in ogni grande film che si rispetti, la bravura e la bellezza della protagonista non bastano a farne un capolavoro. E questo film è un capolavoro.
Con la grazia degli ultimi anni ’50, si ride e sorride, si indulge e comprende, si spera e ci si commuove, sfiorando con delicatezza e senza giudizio, in un modo talmente sottile da non percepirne il carico sociale ed emotivo, temi come la solitudine, la povertà, la prostituzione (di lei, di lui), la paura di farsi amare, la fuga da potenziali dolori, persino la pedofilia.

Già, perchè se io vi parlo di una escort professionista che da bambina rubava negli orti per trovare qualcosa da mangiare, che a quattordici anni accettava di sposare un vedovo con quattro figli pur di avere cibo e famiglia per sè e suo fratello, che quando ha le paturnie si rifugia nella più imponente gioielleria della città per sentirsi al sicuro, perchè lì non può accaderti niente di male, che rifiuta e rinuncia a qualsiasi legame, persino a dare il nome a un gatto, pur di difendersi dalla sofferenza di perdere qualcuno o la propria fittizia libertà, pensate a un film drammatico e greve, non certo alla buffa, deliziosa e svampita Holly.

E forse è questa la vera magia di Colazione da Tiffany: permetterti di accorgerti solo di sbieco dei lati oscuri, lasciandoti vivere una commedia piena di ironia e dolcezza.

Dicono che il libro sia ancora più bello e non ne dubito, i migliori film nascono da grandi testi (o grandi sceneggiature), ma questa volta io preferisco e voglio il finale di Blake Edwards e non quello di Truman Capote.