Dai tempi di Se mi lasci ti cancello (titolo originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind) ho rinunciato a capire il criterio delle traduzioni di certi titoli, per cui neanche lo propongo il dibattito su come The Descendants possa essere diventato Paradiso Amaro.

Le cinque nomination all’oscar mi hanno convinta a pagare un biglietto del cinema per vederlo.
Lo dico subito così evitiamo la suspense, accuratamente evitata anche dal regista:  le mie pur basse aspettative erano comunque troppo alte.
L’entusiasmo che questo film ha suscitato in diverse persone di cui ho stima, pone senz’altro in evidenza una mia sorta di sensibilità diversa -che assente mi sembra un’affermazione forte- rispetto a questo approccio alla storia.
Dove gli altri hanno visto una grande profondità, io ho visto una soporifera superficialità. Dove gli altri hanno visto personaggi sfaccettati e accurati, io ho visto personaggi scontati e appena accennati, tratteggiati come una prima bozza a matita. Dove gli altri hanno visto lo sviscerare delle vicende della vita che possono toccare tutti noi, io ho visto un comodo tripudio di clichè piuttosto prevedibili.

Metti una moglie in coma che alla fine muore come annunciato all’inizio scanso illusioni, che d’altra parte rovinerebbe il senso della storia se si risvegliasse.
Metti una figlia piccola, goffa e casinara perchè piccola, e lasciala identica dall’inizio alla fine.
Metti una figlia adolescente ribelle e scapestrata, scaraventale addosso una secchiata di dolore e  -ops- ecco che, manco a dirlo, si trasforma in un donnino responsabile.
Metti un elemento di disturbo a farti da controcanto e a far da indizio sui pregiudizi erronei, fallo amico adolescente della figlia grande e fallo sembrare scemo ai limiti dell’insopportabile, così poi fa più effetto quando si capisce che è un bravo figliolo dotato di sensibilità e problemi personali. Ammesso che qualcuno venga colto di sorpresa dalla scoperta.
E poi metti lui, il protagonista di richiamo che spera e poi dispera e poi scopre il tradimento e un po’ si arrabbia e un po’ ha pietà e un po’ perdona, sempre di tutto un po’ ma mai abbastanza, e gli amici che sapevano ma una volta detto basta lì e i parenti che pensano alla cessione dell’atollo paradisiaco e subito sembra di sì e alla fine lui decide di no perchè la natura incontaminata, il patrimonio degli autoctoni, la ripicca. Soprattutto la ripicca, che della natura incontaminata e del patrimonio degli autoctoni, diciamocelo, prima non gliene tangeva una beata leguminosa.

Unisci questi ingredienti e mescolali a fuoco lento, molto lento, aggiungendo ordinarie fotografie da cartolina anni settanta, con delle Hawaii che -mi raccomando- non devono essere il paradiso terrestre che tutti si immaginano, a tal punto che nemmeno se mi regalassero il viaggio ci andrei, tanto vale andare a Bergeggi, e aggiungendo la pioggia continua, agghiaccianti camicie che fanno sanguinare gli occhi, mocassini che andrebbero vietati per legge e pantaloni a vita alta che se la nomination all’oscar a George Clooney gliel’abbiamo data perchè sembrava davvero uno sfigato non starei a guardare tanto la recitazione ma la costumista.

Fatto, il film è pronto.

Però ho scoperto che la musica hawaiiana, che ignorantemente ho sempre pensato fosse una specie di parodia di se stessa, una voluta esagerazione da cartone animato, in realtà è davvero così come ce la immaginiamo. Una nenia che l’ipod Fiorio, rigidamente addestrato, inserirebbe da solo nella playlist ZdC (=Zuppa di Coglioni, marchio registrato Sz). C’è un’intera ed esaustiva colonna sonora a disposizione per elaborare un’opinione in merito.

Essenzialmente l’apparenza inganna, non tutto è oro quel che luccica, l’abito non fa il monaco e l’erba del vicino è sempre la più verde, ecco il profondo messaggio di Paradiso Amaro.

Ora che le vostre aspettative sono tarate, potreste anche godervi il film e rivalutarlo.
Non ringraziatemi, my pleasure.