Quello era il libro che le era stato donato dagli Dei quando era nata.
Un libro dalla copertina antica e le pagine preziose, vuote.
Da piccola ci giocava, vi appiccicava fiori, quadrifogli, carte di caramella, disegnava case, alberi altissimi, genitori sorridenti, camini col fumo, girasoli giganti. A volte colorava e basta, riempiva spazi bianchi di tutte le tinte che la sua scatola di pastelli offriva. Quando imparò a scrivere vi scrisse il proprio nome con tutte le matite e le penne che trovò.
Crescendo se ne dimenticò per molti anni. Era il periodo del liceo, dell’università, dei primi lavori, dei fidanzati importanti, delle case e dei traslochi.
Poi cominciò a usare quelle pagine in altri modi. Ne strappò una per scrivere una lettera d’amore, un’altra per scusarsi se non aveva amato abbastanza, un’altra per incartare doni da offrire, un’altra per nascondere un’infelicità, un’altra per spiegare a chi non importava capire, un’altra per scrivere il tempo passato ad aspettare, un’altra per trovare il modo di dire ti amo senza spaventare, un’altra per raccontare se stessa a qualcuno che se n’era andato, un’altra per accendere un fuoco per scaldarsi, un’altra per coprire una ferita, un’altra per dire ciò che non sapeva dire, un’altra per tappare gli spifferi, un’altra per asciugare le lacrime, un’altra per fare origami e distrarre dagli occhi tristi, un’altra per gioco, un’altra per noia, un’altra per rabbia, un’altra per sfizio, un’altra per dare e un’altra per chiedere.
E molte pagine le lasciò a disposizione di chi passava dalla sua vita, di chi -senza capire, senza volere, senza scrupoli o senza amore- di quelle pagine faceva scempio, macchiandole, accartocciandole, usandole per parole mediocri.

Poi le pagine finirono.
Il libro rimase una antica copertina svuotata, come le sue mani, come il suo sentire, come le sue speranze.
Dei, chiese, cos’era quel libro?
Era il tuo futuro, le risposero loro.