Quest’anno, sul GSSP Scrittura e narrazione, gli Scrittori Pigri hanno intervistato, in ordine di intervista: Cristina Rava (scrittrice), Antonietta Pastore (scrittrice e traduttrice dal giapponese) e Luca Briasco (editor, traduttore e agente letterario).
Non pubblico mai tutte le interviste che vengono fatte sul GSSP – appartengono al GSSP – ma questa volta faccio un’eccezione e ne pubblico due su tre.
Quella a Luca Briasco (un’altra intervista interessantissima che per adesso ho letto solo io e che venerdì pubblicherò sul forum degli Scrittori Pigri) la tengo riservata a loro.

Voi, dopo aver letto quella fatta a Cristina Rava, godetevi questa ad Antonietta Pastore.

Nata a Torino nel 1946, dopo il diploma di maturità classica, si è laureata in Pedagogia all’Università di Ginevra, dove è stata allieva di Jean Piaget, e ha poi conseguito un master alla Sorbona di Parigi.
Negli anni Settanta ha lavorato a Parigi presso il Centre George Pompidou in qualità di assistente alla divulgazione pedagogica.
Dal 1977 al 1993 ha vissuto in Giappone, dove è stata visiting professor all’Università di Lingue straniere di Osaka.
Nel 1993 è tornata a vivere in Italia e da allora si dedica alla traduzione letteraria e alla scrittura.

Ha tradotto opere narrative di numerosi autori giapponesi tra i quali Natsume Soseki, Abe Kobo, Inoue Yasushi, Nakagami Kenji, Ikezawa Natsuki, Kirino Natsuo, Kawakami Hiromi, e gran parte dell’opera di Murakami Haruki.
L’ultima traduzione pubblicata è proprio L’assassinio del Commendatore di Murakami Haruki.
Nel 2017 ha ricevuto il Premio Internazionale Noma per la traduzione dal giapponese.

Ha pubblicato con Einaudi il saggio Nel Giappone delle donne (maggio 2004), la raccolta di racconti Leggero il passo sui tatami (marzo 2010, premio Settembrini) e il romanzo Mia amata Yuriko (gennaio 2016).

Le dieci domande per lei degli Scrittori Pigri.

1. Sono sempre stata affascinata dalla filosofia del “tradurre senza tradire”, soprattutto quando le due lingue e civiltà sono così diverse come quelle su cui lavora lei, l’italiana e la giapponese. Mi risulta che in giapponese uno stesso concetto venga espresso in maniera diversa a seconda del soggetto che lo esprime. Se è davvero così, quali sono i modi per rendere questa cosa in italiano?
Nella lingua giapponese c’è qualche caratteristica o formula che ritiene interessante ma che non è riproducibile in italiano?
Nella società giapponese la gerarchia − basata sull’età, sul grado all’interno di un’azienda o un’amministrazione, e anche sul genere − ha grande importanza, e dunque si riflette nel linguaggio. In italiano non abbiamo strumenti sufficienti per esprimerne tutte le sfumature, perché la nostra lingua ha solo tre pronomi personali con i quali ci si possa rivolgere a una persona: “tu”, “lei”, “voi”. Di conseguenza per riuscire a rendere in modo fedele il grado di deferenza, in una conversazione, di un personaggio verso un altro, dobbiamo ricorrere a circonlocuzioni, del genere “sarebbe tanto gentile da…”, “mi farebbe il favore di…” . 
Per esprimere invece il tono brusco o autoritario che qualcuno può avere verso un sottoposto, o semplicemente verso una persona più giovane, può essere sufficiente eliminare parole come “per favore” o “sii gentile”, o aggiungere un punto esclamativo a un ordine impartito. In certi casi però si deve ricorrere a espressioni più forti, come “non si permetta di…”

La gerarchia però, nella lingua giapponese, si esprime anche con la scelta di vocaboli diversi per dire la stessa cosa, a seconda della circostanza. Ad esempio, “mangiare” si dice “taberu”, che è la forma piana, corretta, ma anche “kuu”, che è più brusco. In italiano, abbiamo la scelta tra “mangiare”, “pranzare” e “cenare” − “ha già pranzato?” suona diverso da “ha già mangiato?” − ma a volte non basta e bisogna usare un giro di parole.

Quanto a espressioni difficili da rendere in italiano, mi viene subito in mente  yoyū ga nai. Significa “non c’è tempo, o spazio, in più”, ma anche “non c’è libertà di muoversi”, “non c’è disponibilità (anche economica)”, “non c’è margine di manovra”. Yoyū ga nai è un po’ la bestia nera dei traduttori, e non solo italiani. Anche la parola kokoro è difficile tradurre, perché significa “cuore”, ma anche “mente” e “spirito”; le tre cose insieme, cioè, ma in italiano non esiste un vocabolo corrispondente.

2. Leggendo autori giapponesi mi sono reso conto che c’è una netta differenza nel modo in cui vengono descritte le cose. Il tipo di comunicazione è nettamente differente, quasi distaccata eppure riescono a trasmettere delle sensazioni molto forti. Faccio riferimento soprattutto ai libri di Murakami Haruki in cui le parole si susseguono come l’acqua di un fiume trascinandoti nella storia con lentezza e allo stesso tempo con estrema forza. La mia domanda è: questo modo di scrivere è lo specchio della società giapponese o è più legato a una questione di formalità?
Io credo che sia lo stile di Murakami − quello personalissimo che lui ha trovato dopo i primi maldestri tentativi −, e ritengo che non abbia relazione con i modi espressivi della società giapponese. Infatti ha conquistato lettori di tutte le aree geografiche.

3. Nei lavori di Murakami da lei tradotti che ho avuto il piacere di leggere e apprezzare, ho notato come l’autore riesca a trasmettere perfettamente tramite la scrittura la percezione del “vuoto”. Quella del vuoto è una caratteristica della “forma mentis” orientale che purtroppo a noi occidentali risulta molto ostica, quasi aliena. Quello che volevo chiedere è: quanto in una traduzione da una lingua con una struttura semantica così lontana dalla nostra viene “perso” del significato originale che l’autore voleva trasmettere?
E quanto e in che maniera, secondo lei, le categorie del pensiero occidentale sono un ostacolo per una corretta comprensione di autori che percepiscono il mondo in un modo così diverso? E per finire, quali sono le difficoltà incontrate da traduttrice a rendere comprensibile questa percezione?
È vero che il concetto di “vuoto” è ostico alla cultura occidentale, ma uno scrittore di talento sa trasmettere valori e concetti estranei alla forma mentis di chi legge. Con le immagini, con le atmosfere, con il ritmo della narrazione. In questo caso, direi che il compito del traduttore è meno complesso di quanto sembri, deve limitarsi a ricreare più fedelmente possibile immagini, atmosfere e ritmi così come li trova. Non deve inventarsi niente, cioè, basta che si affidi alla forza comunicativa dell’autore.

4. Ne Il mestiere dello scrittore, Murakami racconta che uno dei motivi principali del successo del suo romanzo d’esordio (Ascolta la canzone del vento) è essere riuscito ad “inventare” un linguaggio nuovo e originale, grazie a una sorta di fusione tra inglese e giapponese, che scrivere in inglese lo ha portato ad asciugare o semplificare le sue frasi, la scelta delle parole.
Mi chiedevo se nei suoi libri, come traduttrice, lei nota una differenza nel modo di scrivere, rispetto ad altri autori giapponesi, che pensa possa essere legato a quella forzatura iniziale. E anche come sia possibile rendere questo elemento di originalità in una traduzione.
Lo stile di Murakami ha segnato una svolta nella letteratura giapponese. Più che di quella “forzatura”, è il risultato di tutte le letture di autori americani fatte da Murakami quando era ragazzo. Scrittori come Carver, Chandler, Fitzgerald − che in seguito lui ha tradotto in giapponese − l’hanno molto influenzato. Ascolta la canzone del vento ha portato, è il caso di dirlo, una “ventata” d’aria fresca nel panorama letterario dell’epoca. Con i primi romanzi di Murakami, si apre un’epoca nuova, da allora sono emersi negli anni tanti altri scrittori − e soprattutto scrittrici − con uno stile molto lontano da quello degli autori della generazione precedente (quali ad esempio Mishima, Inoue Yasushi, Abe Kobo, Nakagami Kenji). Uno stile molto più attinente alla vita quotidiana, alla realtà attuale.

5. Nel tradurre un romanzo può capitare di sentire la necessità di confrontarsi con l’autore per qualche aspetto? Quanta libertà si ha, nel discostarsi da una traduzione letterale per rendere al meglio, in una lingua differente, quello che l’autore ha scritto?
Quanto un traduttore nel suo lavoro diventa autore? E quanto e quando l’autore consente che ciò avvenga?
La necessità di confrontarmi con l’autore ogni tanto la provo, ma purtroppo con Murakami Haruki non è facile. Ho provato a farlo, via mail, un paio di volte, ma la risposta, per quanto cortese, si riassumeva a un “non ricordo, lascio l’interpretazione a lei”. Il succo era questo. Quindi, se ho delle incertezze, preferisco scrivere a una mia amica giapponese, forte lettrice e fan di Murakami, e chiedere consiglio a lei. Quanto agli altri autori che traduco, spesso sono morti, quindi se ho un problema di traduzione ricorro alla stessa amica. Inoltre i classici moderni sono sempre tradotti in altre lingue, e quando ho dei dubbi consulto le traduzioni in inglese o in francese. Riguardo a Kawakami Hiromi, finora non mi è capitato di trovarmi in serie difficoltà nell’interpretazione di qualche passaggio di un suo romanzo; anche se il suo stile non è facile da rendere in italiano, perché è molto sfumato e allusivo.

Vengo ora alla domanda sulla traduzione. Io penso che il traduttore, soprattutto quando traduce da una lingua di partenza molto diversa da quella d’arrivo, abbia molta libertà. Deve avere il coraggio di prendersela. Perché l’obiettivo è rendere l’atmosfera del racconto, il sentimento dell’autore, e questo richiede a volte che ci si allontani dal testo originale. Il che significa che il traduttore riscrive completamente il libro, e quindi diventa anche in parte autore. Con una dose di creatività molto inferiore a quella di chi ha scritto l’originale, tuttavia. È un equilibrio difficile da trovare, e in questo consiste soprattutto l’arte del tradurre, ma anche il piacere e l’emozione della traduzione. Per raggiungere questo risultato, naturalmente l’esperienza è un fattore prezioso. 

6. Traduce anche dall’italiano al giapponese? Se sì, qual è la “direzione” più stimolante per lei?
No, non traduco mai dall’italiano in giapponese. I traduttori, tranne rare eccezioni, traducono sempre nella loro lingua materna, qualunque sia il loro campo linguistico.

7. Quali sono i generi più amati dai lettori giapponesi? Horror e thriller hanno molto successo nelle sale cinematografiche e spesso confermano questa popolarità in Occidente: succede lo stesso nel campo della narrativa? Mi riferisco a Natsuo Kirino, ad esempio.
I thriller da sempre sono molto amati dai lettori giapponesi. Ma non solo questi, negli ultimi anni si sono affermate diverse scrittrici i cui romanzi toccano problematiche della società giapponese, quali rapporto nella coppia, maternità, lavoro femminile, prostituzione.  Quanto a Natsuo Kirino, è molto popolare, ma nonostante in occidente la si consideri una scrittrice di noir, in realtà la sua scrittura è molto più diversificata, di più vasto spettro. Comunque i giapponesi leggono molto più degli italiani e continuano ad amare i classici moderni come Natsume Soseki, Kawabata o Tanizaki, e gli scrittori della generazione seguente che ho citato prima (Mishima ecc…)

8. Quanto la sua formazione pedagogica è stata importante all’inizio e durante la sua nuova vita in Giappone?
È stata fondamentale. Non tanto perché mi abbia dato delle “formule” di interpretazione, che non esistono, quanto perché ha plasmato la mia forma mentis, mi ha fatto prendere l’abitudine mentale di andare al di là dell’apparenza, di scavare sotto la superficie delle cose e cercare di capire la motivazione reale di parole e comportamenti. Mi ha anche aiutato a mettere in discussione me stessa, a fare un passo indietro e cercare di osservarmi con obiettività. Non sono sicura di esserci sempre riuscita, probabilmente no; ma quest’atteggiamento mi ha aiutato a capire che per creare una vera comunicazione con i giapponesi, dovevo liberarmi non solo dei pregiudizi che avevo su di loro, ma anche di qualcosa che chiamerei ‘egocentrismo europeo’. Quel tipo di atteggiamento mentale, cioè, che dà per scontato che il ‘comune buon senso’ sia quello occidentale. Comprendere che il concetto stesso di ‘buon senso’ è fluido, che varia da una cultura all’altra, è stato il primo passo verso una maggiore apertura verso i giapponesi, e quindi verso il dialogo e la reciproca comprensione.

9. Mi piacerebbe sapere se il lavoro di traduttrice ha avuto un impatto su quello di scrittrice e viceversa.
Sicuramente la traduzione è una buona scuola di scrittura, ma non so quanto abbia potuto influenzarmi. Non è una cosa di cui io sia in grado di rendermi conto, forse i lettori possono giudicare meglio di me. Credo però che il mio stile sia stato influenzato piuttosto dalla letteratura francese, che conosco bene per aver vissuto, prima di andare in Giappone, dieci anni in paesi dove parlavo in francese e leggevo soprattutto in francese. Ancora adesso, quando scrivo, ho dei francesismi che sicuramente lasciano interdetti i miei editor.

10. Confesso di averla conosciuta prima come scrittrice e successivamente come traduttrice. Ho apprezzato molto come lei riesca a descrivere la cultura e la vita nipponica nei suoi libri, con sinceri occhi occidentali che hanno anche saputo oltrepassare alcune diversità apparentemente incompatibili (per quanto affascinanti) con la nostra quotidianità.
Compatibilmente con il suo ingente lavoro di traduttrice, ha mai pensato di scrivere una continuazione al suo “Leggero il passo sui tatami”, o più in generale, di pubblicare un quarto libro?
Mi fa piacere che abbia apprezzato i miei libri. Quanto a scriverne un altro, ci sto pensando e spero di trovarne il tempo, ma non sarà necessariamente un libro che riguarda la mia vita in Giappone, o ambientato in Giappone.