L’altro giorno passeggiavo in libreria e, per gioco e curiosità, ho guardato quanti scrittori e quante scrittrici campeggiavano sui banchi delle novità, dei best seller e dei più venduti.
Così tante donne che ho sorriso pensando che, insieme al tempo e alle nostre tastiere, non abbiamo avuto bisogno delle quote rosa per conquistare spazio nell’editoria. E non credo che l’editoria sia un mondo particolarmente propenso al femminismo, tutt’altro.
Ma qui, ed è questo che mi piace, o almeno è questa la mia sensazione, non c’entrano il femminismo, il maschilismo, le quote rosa o altre battaglie politiche e sociali. Semplicemente, le donne hanno cominciato a scrivere e molte di loro a scrivere bene.
Non sto dicendo che tutte le donne che vengono pubblicate scrivono bene. Non sto neanche dicendo che invece gli uomini scrivono male, o che le donne scrivono meglio.
Sto dicendo che non ha alcuna importanza la differenza tra uomo e donna, sto dicendo che nessuno ha chiesto l’imposizione a pubblicare una percentuale stabilita di autrici, sto dicendo che chi l’ha voluto si è creato l’opportunità facendo bene qualcosa. Sto dicendo che a suon di libri, ci siamo conquistate silenziosamente ciò che altrove viene cavalcato come uno dei punti forti per vincere le elezioni.
Chi lavora nell’editoria mi confessa che ultimamente gli inediti migliori sono scritti da donne e che il mercato sta puntando su di noi perché rappresentiamo anche la percentuale più alta dei lettori ancora attivi in Italia. Un qualcosa che si aggira attorno al 65/35. Cioè: noi donne siamo circa il 65% dei lettori italiani.
Leggiamo e scriviamo. A volte robine leggere, i cosiddetti chick-lit, e a volte vinciamo il Pulitzer.
Del resto, ci sono scrittori che diventano miliardari con romanzi sul Santo Graal e scrittori che vincono il Pulitzer.
Dov’è la differenza?
Mai sentito dire, di un libro in cima alle classifiche di vendita ma senza alcun valore letterario, “Be’, è un tipico libro maschile” con il disdegno del lettore selettivo.
Però ho sentito uomini screditare la valutazione di una donna su un testo, perché donna.
Ho sentito uomini dichiarare di non leggere libri scritti da donne.
Ho sentito uomini preferire un testo scritto male a uno scritto bene, perché il primo era di uomo, e aveva di default più credito.
Tutte persone colte, intelligenti e grandi lettori (benché nessuna che si occupasse di editoria).
Tutti italiani.
A me diverte che ci siano ancora uomini che la pensino così. Sul serio. Mi fanno tenerezza, perché è come se si ostinassero, magari inconsapevolmente, a difendere un fortino che non interessa più a nessuno.
Noi, uomini e donne di questo tempo, siamo già oltre, mentre loro arrancano piazzando piccole bandierine di pregiudizi e pensieri mediocri, fondamentali per non sentirsi da meno.
Quindi mi sta bene che ci siano, non li combatto, siamo in Italia, dove ai colloqui di lavoro ti chiedono se intendi fare figli, per decidere se assumerti o no. Cosa volete che sia un uomo che ritiene le donne culturalmente o narrativamente inferiori. Ho dei problemi io perché “sono troppo ironica, e per una donna è strano“. Il minimo è riderne.
Mi interessa di più la battaglia contro il genere rosa che in Italia viene appiccicato spesso a forza alle titolari di ovaie, la ghettizzazione dei libri delle donne per le donne sulle donne con le donne. O sei impegnata nella lotta dura senza paura o scrivi stucchevolezze alla melassa. Anche questa una insopportabile discriminazione.
Tornata a casa ho guardato la mia libreria. Tra i miei autori preferiti ci sono solo un paio di donne, tutti gli altri sono uomini. Ma è un elemento a cui non ho mai fatto caso.
E’ questa la vera rivoluzione sessuale, è questo a cui dovremmo ambire tutti. Non farci più caso e scegliere il meglio.
I miei due centesimi sulla questione.
ps
Quella lassù, nella foto, è Toni Morrison. Ha vinto il Nobel per la Letteratura, il Pulitzer per la Narrativa e insegnato in Università tipo Yale, Berkeley e Princeton.
pps
il giorno dopo questo post, Giulio Mozzi ha pubblicato questo interessantissimo dialogo sul suo blog. Non ho la presunzione di pensare di averlo ispirato io, figurarsi, penso piuttosto che la questione della letteratura di genere sia un argomento vivo, che sta corricchiando nell’aria e negli animi di chi si sofferma a pensarci. E mi piace che gli scrittori la affrontino, cominciando dai pregiudizi da abbattere.
Il “tipico libro maschile” non esiste, perché la “cosa tipica maschile” non è leggere i libri.
Uno che scrive tanto e bene, è già uno che sta facendo una cosa che non è “tipicamente maschile”, quindi gli scrittori uomini vengono apprezzati ugualmente da uomini e donne, perché sono “neutri”.
Le scrittrici celebri esistono da secoli, non sono una cosa nuova o sconvolgente. Il problema è che scrivono quasi sempre “da donne”, e risultano generalmente indigeste ai lettori uomini (io per primo).
Ah, mi è venuto in mente che ci sono dei libri “tipicamente maschili”, ma ormai credo che si trovino solo dei fondi di magazzino impacchettati in offerta speciale “3 libri 5 euro”. Se uno di questi scalasse le classifiche, credo che le donne storcerebbero il naso tanto quanto un uomo che vede le statistiche di vendita di Danielle Steel. (o delle Sfumature di Grigio Rosso e Nero) .
Capisco cosa intendi per “tono neutro”. Lo prediligo anche io, senza alcun dubbio. Ma lo trovo sia in scrittori uomini sia in scrittrici donne. Basta che siano scrittori bravi.
Per tutto il resto replicherei facilmente a ogni singolo punto, ma lo ha fatto così egregiamente J.Edi che troverei superflua qualunque puntualizzazione. Oltretutto lui è un uomo, più attendibile di default, I suppose 😉
Le scrittrici celebri esistono da secoli? Sempre un piacere leggere un commento che viene dal futuro.
Quanto ai fondi di magazzino, temo che quelle a cui ti riferisci siano pubblicazioni dotate più d’immagini che di parole (dotate, peraltro, mi sembra il termine giusto).
“Tipico libro propriamente maschile” non vien detto non perché i maschi non leggano (benché vero); ma perché fino a un po’ di tempo fa (un paio di secoli al massimo, per noi del 2014) erano i maschi, in genere, a scrivere. E sottolineo: in genere.
Chiedi a un cento persone random: mai sentito parlare di Compiuta Donzella, Christine de Pizan, Veronica Gambara, Louise Labé, Jeanne des Anges? Temo che il tasso di celebrità di queste scrittrici sia pari al QI, che so, di un Alfano. E mi son già spinto alto.
Dissento anche sulla scrittura “da donna”. E porto un esempio dal mondo dell’editoria.
C’era una volta un curioso editor che si interrogava su un annoso dilemma, a cui ancora non aveva trovato una soluzione: le scrittrici scrivono tutte, ma proprio tutte, Fiori&Cuori&Amore&Nuvole&Emozioni? Non sapendo, nonostante l’esperienza, rispondere, e pensando a gigantesse come Virginia Woolf, Doris Lessing, Alice Munro, Goliarda Sapienza, Marguerite Duras, Emily Dickinson, Mary Shelley, Agatha Christie, Simone de Beauvoir, Christa Wolf, Marguerite Yourcenar, J. K. Rowling, Ingebor Bachmann (per dire le prime che gli erano venute in mente), decise di non leggere più i nomi sui manoscritti che arrivavano in casa editrice, ma di tirare a indovinare. Cioè: prima avrebbe letto un manoscritto, poi cercato di indovinare il genere dell’autore, e alla fine, solo alla fine, avrebbe controllato.
Il risultato fu una cosa che più frustrante non si poteva: un cinquanta e cinquanta. Indovinava un maschio su due e una femmina su due.
Certo, si potrebbe obiettare che gli editor non brillano per spirito di intelligenza e di iniziativa. Ma un po’ di esperienza dovrebbero avercela.
E la morale, la morale di questa storia qual è?
La morale è che la scrittura di genere non esiste, non raccontiamoci balle. Di fronte a una pagina bianca non si è Uomini e donne. Si è qualcos’altro. Come sempre dovrebbe essere.
Esatto.
Nella scrittura come nell’arte, nel lavoro o nella politica non si è uomini e donne, ma persone capaci o no, competenti o no, affidabili o no, talentuose o no. E via dicendo.
Come sempre, e in ogni campo, dovrebbe essere.
Puntini sulle “i”: anche volendo lasciar stare Saffo e altre figure poco note, resta il fatto che 200 anni (Mary Wollstonecraft Shelley, Jane Austen) sono “secoli”.
Credo che nessuno si stupisca seriamente del fatto che una donna sappia scrivere, nel 2014, né credo all’esistenza di una sorta di inconscio complotto antifemminile per cui dei capolavori letterari non arrivano al successo (o alla pubblicazione) perché scritti da donne e non da uomini.
Abbiamo avuto un premio Nobel per la letteratura quasi 90 anni fa, figurati se la cosa desta ancora stupore.
Non so di quale genere letterario si occupi il tuo amico, ma se io dovessi fare lo stesso gioco con (ad esempio) la fantascienza, direi sempre “uomo” e avrei ragione nel 95% dei casi.
Se nel romanzo non c’è ALMENO una storia d’amore, lo scrittore è quasi sicuramente un uomo. Se non si parla di odori e profumi è un uomo. Se è un libro fantasy, 50% e 50%. Se si descrivono con passione ed ammirazione delle armi da fuoco di vari modelli –> uomo. Se parlando di un’automobile si cita il colore ma non il modello –> donna.
Non so se hai mai provato a leggere dei racconti erotici o pornografici amatoriali, ma lì il tasso di riconoscimento del sesso di chi scrive dovrebbe essere intorno al 99%, anche se si tratta di un uomo che si finge una donna o di una donna che si finge un uomo.
Il fatto che nella storia ci siano state alcune eccezioni di donne scrittrici, non significa che le donne abbiano sempre scritto e pubblicato libri. Ma non sono io a dirlo, non è neanche una mia opinione, è semplicemente un dato di fatto. E due o dieci esempi non dimostrano il contrario, ma solo l’eccezione alla regola. Da alcuni decenni le cose stanno cambiando.
Né qui è mai stato detto che nel 2014 ci si stupisce se una donna sa scrivere, o che ci sia un complotto per impedire a capolavori scritti da donne di arrivare alla pubblicazione. Che sciocchezze.
Se devi mettere i puntini sulle i, becca le i 😉
L’argomento era ed è un altro, anzi, altri due:
1) le donne, nella scrittura, si sono conquistate spazio scrivendo e scrivendo bene. Mentre altrove sembra che debbano imporre regole da quote rosa per imporsi;
2) basta coi pregiudizi di genere, sono ottusità maschiliste poco degne di persone intelligenti della nostra epoca: una donna è capacissima di scrivere di fantascienza, di politica, di problemi sociali, di comicità e quant’altro, esattamente come un uomo. Ci sono donne che scrivono d’amore e uomini che fanno altrettanto (o Anna Karenina, il Maestro e Margherita o l’Idiota sono stati scritti da donne?), ci sono donne che scrivono cazzatine su shopping e scarpe col tacco -che tu non leggi e nemmeno io- e uomini che scrivono cazzatine su altre cose -che probabilmente tu non leggi e nemmeno io.
Il punto è la discriminazione di partenza: decidere a priori che un testo scritto da una donna non sarà adatto a un lettore maschio è un grosso e triste limite mentale, infondato.
Ci sono bei libri e libri mediocri. Ottimi scrittori e scrittori mediocri. Generi letterari che interessano più a te e generi letterari che interessano più a me. Tutto a prescindere dal fatto che io e te siamo donna e uomo, o che chi scrive quei libri sia donna o uomo.
Quindi, semmai, parliamo di autori e autrici con nomi e cognomi che non ci piacciono. Non di “libri scritti da donne” che non ci piacciono.
tutto interessante, per carità, ma “a me diverte” proprio no.
marta
A me diverte solo in quel caso, in quell’ambito. In altri proprio no.
E anche in quello, lo dico con quella punta di ironia che mi è tipica.
no, intendo, si dice: divertire me, non divertire a me.
quindi “me mi diverte”, al massimo.
ah be’, se vogliamo essere dei grammarnazi (sempre benvenuti) meglio essere corretti fino in fondo: Mi diverte è la forma giusta.
Me mi diverte è un po’ come masticare carta stagnola.
A me diverte non mi risulta un errore, comunque. Si tratta di una forma più orale (come il linguaggio che si usa nei blog) ma non necessariamente scorretta se a inizio frase, a rafforzare il pronome personale.
Se proprio dobbiamo fare incetta di puntini sulle i, consiglio la lettura dell’ottima Grammatica italiana di Luca Serianni, uno dei pochi testi che insegna ad approcciarsi alla nostra lingua, una lingua molto complessa, senza la penna rossa.
Vi si legge (II,39, p. 95):
Caratteristico dell’Italia meridionale è il complemento oggetto retto dalla preposizione a (oggetto preposizionale): “canzonare a te” (cfr. De Amicis, Idioma gentile, 52). “L’impiego della preposizione è certamente determinato dal bisogno di una più netta distinzione tra soggetto e oggetto: Carlo chiama Paolo diviene Carlo chiama a Paolo. Il fenomeno resta circoscritto agli esseri animati, perché di norma gli oggetti inanimati possono aver soltanto funzione d’oggetto” (Rohlfs, 1966-1969: 632). Il costrutto ricorre facilmente, anche in parlanti centrosettentrionali, quando il “tema” è posto in evidenza all’inizio di frase, almeno se l’oggetto è un pronome personale (“a me nessuno mi protegge”) o con alcuni verbi reggenti come convincere, disturbare, preoccupare (“a te preoccupa”); cfr. Berretta 1990.
una formula tipo “‘me mi diverte” la usa abitualmente il traduttore di salinger, per esempio. per me è meno peggio di “a me diverte”.
per quanto riguarda l’uso in zona meridionale, non so, io vivo a treviso, ma mi risulta che in meridione dicano anche: scendi lo scatolo, non sono nato imparato e altre delizie del genere, quindi non so.
Non so a che libro tu ti riferisca di Salinger, se al Giovane Holden, raramente ho sentito criticare tanto una traduzione. Qualcuno sostiene proprio che ne abbia rovinato l’effetto originale. Il fatto che tu preferisca me mi diverte a a me diverte è una questione di gusto personale tuo (ammesso che sia accettabile dire me mi diverte).
Ma col Serianni -e non solo- in squadra, mi sento molto serena a usare A me diverte senza temere di fare strafalcioni: rafforza il pronome personale e dà un peso diverso all’affermazione. Mi diverte lo uso, ovviamente, in altri casi, probabilmente più numerosi. Ma continuerò a usare A me diverte con la coscienza a posto, quando mi sembrerà essere più efficace nel contesto.
Però ti capisco. Anche io amo la grammatica italiana, amo le regole che mi hanno insegnato a scuola (metodo Montessori, puoi immaginare) e amo anche questi dibattiti, che offrono occasioni per ragionare su una forma espressiva della nostra lingua. Ma ho dovuto imparare (e accettare, dolorosamente) che la forza di una lingua viva sta proprio nel fatto che sia viva, e quindi evolva linguisticamente. Personalmente sono ancora in lutto per il “dar loro”: mi era stato insegnato -senza concessioni- che quando dai o fai una cosa a loro non usi dargli o fargli (argh!), perché gli sta per a lui.
E invece no. E invece è corretto dire dargli anche quando è a loro (maschile) o, tienti forte, per me è stato un trauma, a loro (femminile).
Cosa vuoi che ti dica, questa battaglia siamo destinate a perderla 🙂