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secolo-xix-natale-fiorioPer chi se lo fosse perso, ecco il mio ricordo di Natale pubblicato ieri su Il Secolo XIX.

Eravamo seduti sul muretto del giardino condominiale, sotto il nespolo. Io sei anni, lui cinque. Il Fabietto era il mio vicino di casa, all’epoca anche mio migliore amico, lo è stato per anni. Noi ci suonavamo alla porta di casa, una dirimpetto all’altra, e decidevamo se giocare da lui, da me o giù in giardino. A meno che qualche adulto non ci urlasse “Andate a giocare fuori!”. In tal caso, giardino.

Eravamo seduti sul muretto del giardino condominiale, dunque, gambette a penzoloni, bacche di pitosforo tra le mani per appiccicare i semini collosi alle foglie e farne dei disegni totalmente astratti ma molto vischiosi.
“Tu ci credi, a Babbo Natale?” mi chiese, aprendo una bacca con una pietruzza.

Io alzai le spalle e continuai ad attaccare semini. “No, lo so che non esiste”.
“Già” disse lui, porgendomi la bacca aperta. “Ma papà e mamma non lo sanno, che io lo so”.
Neanche i miei lo sapevano, gli risposi. “Ci tengono, che io creda a Babbo Natale”.
Lui annuì. “Anche i miei”.
Era una cosa importante, per loro, che noi ci credessimo, e tutto sommato, per quanto non ci piacesse essere trattati come dei bambini piccoli, non volevamo deluderli.

Ma che Babbo Natale non esistesse era evidente. Mica come i supereroi, i maghi, le streghe, gli animali parlanti, i mostri sotto il letto, i principi e le principesse, i folletti, le fate e naturalmente Zorro. Babbo Natale era un vecchio che lavorava una notte all’anno, riuscendo a portare regali a tutti i bambini del mondo che, a occhio, dovevano essere davvero tanti. Nessuno poteva crederci sul serio!
Ma avremmo finto ancora un paio d’anni, io e il Fabietto, per far contenti i nostri genitori.

Però, quel Natale, mia nonna mi disse che i regali li portava in realtà Gesù Bambino.
E questo non mi piacque, non mi piacque per niente. Prima di tutto quel cambio al vertice creava confusione: o era Babbo Natale o era Gesù Bambino, che si mettessero d’accordo su cosa dirmi, che diamine. Poi, mi dava molto fastidio l’idea che un neonato in fasce maneggiasse i miei regali. Infine che girasse all’aperto, da solo e con quel freddo, coperto solo con una specie di antico pannolone (lo ammetto, questa preoccupazione veniva in seconda battuta rispetto al timore di ritrovarmi con regali danneggiati, ero una bambina sensibile ma pragmatica).

Però, andava riconosciuto, spiegava perché, nel presepe, lui fosse sempre l’ultimo a farsi vedere. Persino i Re Magi c’erano, in arrivo dal secondo scaffale o dall’angolo più remoto della mensola, la zona delle montagne finte.
Gesù Bambino invece, detto anche il Bambin Gesù, non c’era. Arrivava solo la mattina di Natale, dopo giorni di mistero, forse passati davvero a occuparsi dei regali.
Tuttavia non mi tornava, non mi tornava affatto.

“Oh, Fabietto” gli dissi un pomeriggio di dicembre mentre giocavamo coi Lego. “A te, di Gesù Bambino, hanno detto niente?”
Lui incastrò una piastrella e alzò lo sguardo su di me. “Gli è successo qualcosa?”.
“Dicono che sia lui a portarci i regali” bisbigliai, per non farmi sentire da sua madre, in cucina.
Lui rise, con tutta l’esperienza dei suoi cinque anni e quattro mesi. “Ma figurati, è piccolo, mica ce la fa”.
Quello che pensavo anche io. Eppure mi era stato vietato l’accesso al soppalco, regno paterno, perché Gesù Bambino li avrebbe lasciati lì, i regali. Saltava completamente la storia del camino, che, da giorni, restava impunemente acceso.
Io e il Fabietto ci guardammo e non dovemmo aggiungere altro. Dal suo soppalco, piccoli com’eravamo, riuscivamo senza problemi a passare dalle finestrelle che davano sul tetto.
Lasciammo la base spaziale in costruzione e sgattaiolammo di sopra, in quella che, nell’appartamento gemello del Fabietto, era la stanza di suo fratello. Ma suo fratello non c’era, e noi non avevamo alcun interesse a toccare le sue cose, non quel giorno, per lo meno.
Aprimmo la finestrella, strisciammo fuori e con le mani a circondarci la faccia, appiccicata al vetro, ci mettemmo a scrutare il soppalco di mio padre. Lì, sul tetto di un condominio di quattro piani. Per fortuna non spiovente.
C’erano dei pacchi colorati! E uno poteva essere anche la Barbie che volevo! Che emozione! Gesù Bambino era già passato, con quattro giorni di anticipo. O forse era Babbo Natale. O magari un elfo, un folletto, un mago. Anche una strega sarebbe andata bene, l’importante erano quei pacchi colorati.
Avremmo creduto a tutto quello che volevano, pur di averli, decidemmo.
Tanto, per noi, la magia del Natale era altro, e quella non ce la tolse mai nessuno.

La magia del Natale erano i genitori a casa, in vacanza dal lavoro, era l’albero con le lucine e le monete di cioccolato appese, era il Luna Park alla Foce, erano i dolcetti tutti i giorni, erano le vigilie con la casa piena di gente e gruppi di bambini in camera a giocare, svegli fino a mezzanotte, era lo zucchero a velo sul pandoro da leccare prima di mangiare la fetta, erano i giochi di società da fare tutti insieme, erano i regali da scartare e il profumo di nuovo, di famiglia e di amici.

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