Cerca
Close this search box.
,

contro-violenzaAnna si era ritrovata vedova a ventisette anni, con una bambina di pochi mesi. Aveva una casa, una famiglia che la aiutava, un lavoro sicuro in ospedale. Ma solo quando il primario di chirurgia aveva deciso di raccogliere i suoi pezzi e di ricomporli in una donna da amare, lei aveva ripreso a vivere.

Bello, affermato, benestante e premuroso, lui, che avrebbe potuto scegliere qualunque donna, aveva voluto lei, l’infermiera vedova con una bimba piccola. Si erano sposati due anni dopo l’incidente, in un giorno pieno di sole. Erano felici, erano innamorati, erano una famiglia. Erano casa.

La prima volta che era successo, era stata colpa sua.

Era andata all’addio al nubilato di una collega, non aveva previsto di rientrare tardi. Ma erano andate a ballare e, quando era tornata, erano già le tre del mattino. Gli aveva mandato un messaggio per avvisarlo, ma era pur sempre rientrata alle tre.
Lui si era spaventato, in quello schiaffo era condensata la sua paura. Dopo, si era scusato. Non era un uomo violento, non lo era mai stato, aveva solo perso il controllo quella volta.
I suoi sensi di colpa avevano riportato un’atmosfera da luna di miele tra di loro, era stato facile dimenticare quel ceffone.

Non era più andata a ballare con le colleghe, ma non era stata una rinuncia faticosa. Aveva trent’anni, una famiglia, un lavoro, una vita sociale appagante, la discoteca apparteneva a un’altra età, a un’altra vita.
Poi c’era stata la sera del suo compleanno. Aveva invitato a casa alcune persone, una cena tranquilla, una torta, un brindisi. Lui non aveva mai familiarizzato con i suoi amici, ma sapeva quanto lei fosse legata a loro e le lasciava organizzare quelle cene per le occasioni speciali. Sapeva anche essere gentile e sorridente, era stato educato nella migliore borghesia della città, avvezza alla socialità.
Non ricordava quale fosse stata la sua frase sbagliata, quella sera, o il suo atteggiamento, forse era allegra, forse aveva bevuto. Ma si ricordava il dorso della sua mano che le si abbatteva sulla tempia e sullo zigomo, la perdita dell’equilibrio, la caduta sul tappeto e lo sguardo di lui, in piedi davanti a lei.
Aveva aspettato che fossero usciti tutti prima di smettere di sorridere, voltarsi e colpirla. Era stata frivola e sciocca, le aveva detto, si era vergognato di lei. Se era questo l’effetto che le facevano i suoi amici, non aveva saputo sceglierseli bene.
Lei aveva avuto paura e aveva pianto, singhiozzando scuse. Non se n’era resa conto, non aveva capito di averlo messo a disagio. Lui l’aveva abbracciata, l’aveva tenuta stretta e l’aveva tranquillizzata. Non era più arrabbiato, era passata. E non avrebbe dovuto colpirla così forte, stava spuntando l’ecchimosi. Ecchimosi, aveva detto così. Aveva avvolto del ghiaccio in un tovagliolo e glielo aveva premuto sul viso.

Quella era stata la sua prima caduta.

Aveva smesso di frequentare i suoi amici, li sentiva ogni tanto e poi sempre meno, aveva una famiglia e un lavoro, non riusciva a conciliare tutto, era naturale che la routine li disperdesse. Da allora, era caduta altre volte.
Era impossibile prevedere quando e dove sarebbe inciampata, poteva essere una frase, una risposta, un ritardo, una risata nel momento sbagliato, la pasta troppo cotta o una camicia macchiata. A volte era uno schiaffo, a volte un pugno, a volte un calcio nei fianchi, sulla schiena o nella pancia, a volte le stringeva una coscia fino ad affondarle le dita nella carne, mai in presenza di altri, mai lesioni gravi. Erano sempre e solo lividi.
Spesso, dopo, lui veniva travolto da qualcosa che assomigliava a un senso di colpa. Si era sfogato, aveva ripreso lucidità, aveva controllato il nuovo segno lasciato sulla moglie ed era sprofondato nell’angoscia. Nessuno doveva vedere, nessuno doveva sapere, lei doveva capirlo e perdonarlo. Non sarebbe più successo. E nessuno vedeva, nessuno sapeva, lei lo perdonava. Ogni volta. E ogni volta tornavano la passione e la voglia di stare insieme. E arrivavano regali sempre meno inattesi, piccole vacanze, serate fuori.

Lei non lavorava più. Non l’aveva obbligata lui a smettere, glielo aveva solo suggerito. Era la moglie di un primario, poteva occuparsi della figlia e della casa, ritagliarsi momenti per se stessa. Non aveva senso che girasse con zoccoli e camice per le corsie, prelevando sangue e controllando flebo. Non era il caso. Avevano deciso così, andava bene anche a lei. E poi poteva passare più tempo con Rebecca che stava crescendo e iniziava la scuola.
Non l’aveva mai colpita davanti alla bambina e Anna aveva sempre cercato di smorzare il dolore e il pianto per non farsi sentire. Non voleva che sua figlia sapesse, che vedesse.
Quelli erano momenti di coppia, problemi tra adulti che andavano risolti nello stesso cerchio in cui esplodevano. Non doveva uscire nulla, da quel cerchio.
Fuori, tutto era esemplare. Una bella casa, una bella famiglia, frequentazioni alla stregua, mai al di sotto di un buon livello sociale. Rebecca aveva un padre e una vita protetta. Aveva una stanza piena di giochi, andava in una scuola privata, si divertiva con gli amichetti. Ogni anno le compravano un nuovo completo da sci per la settimana bianca sulle Dolomiti, la portavano a conoscere una città straniera, la iscrivevano alla colonia estiva dove imparava ad andare a cavallo e a giocare a tennis.

Poi c’era stato quel giorno. Un altro errore, un’altra botta.
Lui, subito dopo, era uscito sbattendo la porta. Lei si era rialzata, si era seduta sul divano e aveva affondato il viso tra le mani. Nessuno dei due si era accorto di Rebecca. Anna aveva avuto un sussulto quando aveva sentito la stoffa di un canovaccio sfiorarle le dita e il freddo del ghiaccio raggiungerle. “Tieni, mamma,” le aveva detto sua figlia, di otto anni.
Lei aveva preso l’impacco e se l’era premuto sulla guancia, continuando a fissarla. La vergogna le soffocava le parole.
“Perché non ce ne andiamo?” le aveva chiesto la bambina.

Non aveva mai pensato di potersene andare, le era sempre parsa una di quelle azioni inammissibili, che nessuno le avrebbe permesso di fare, che lei non sarebbe mai stata capace di fare. Per sua figlia, invece, sembrava essere la decisione più sensata, più logica. Non le importava dei giocattoli, della settimana bianca, delle vacanze e dei vestiti come quelli delle sue compagne. Sapeva che sua mamma era infelice, l’aveva sentita piangere, l’aveva sentita soffocare le urla, le aveva visto i lividi ma non l’aveva mai vista cadere. E quella sera aveva capito perché.
“Andiamo via, mamma. Lui non ti vuole bene, se ti picchia.”
Un dogma semplice, come solo i bambini possono riassumere.
Lui non le voleva bene, se la picchiava.

Aveva già udito parole simili. Una sera, quando ancora lavorava al pronto soccorso, era arrivata una ragazza dell’Ecuador tumefatta, accompagnata dal fidanzato che aveva le nocche rosse. Il medico lo aveva costretto a restare fuori dalla saletta e aveva chiamato una psicologa del Centro Antiviolenza.
“Questo non è amore,” aveva detto la donna alla ragazza.
Anna aveva ascoltato tutte le spiegazioni e i consigli che erano stati dati su quel lettino, mentre fuori il ragazzo si innervosiva e chiedeva della sua fidanzata. Ma era convinta che quello delle donne maltrattate fosse un problema culturale, che riguardasse gli extracomunitari e le fasce più disagiate.
Lei non era una donna maltrattata.

(tratto da "Qualcosa di vero")

 

Lei era una donna maltrattata. Come tante. E come tante non lo riconosceva, e non reagiva. Ci vuole molta forza per dire Basta, ma quella forza bisogna trovarla, insieme al coraggio di chiedere aiuto.

25 novembre. Giornata mondiale contro la violenza sulla donne.
Terribile dover dedicare una giornata a questo, ai giorni nostri. Ma purtroppo è ancora indispensabile.
Un giorno non ce ne sarà più bisogno, per arrivare a quel giorno dobbiamo unirci tutti insieme e dire Basta.

Cerca