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La piccola Bianca ha cinque anni ed è una bimba sveglissima.
Intelligente, acuta, ironica, curiosa, vispa. E con quegli occhioni azzurri e quei capelli biondi farà sfracelli, appena entrerà nel mondo degli ormoni attivi.
Mi ha appena conosciuta e ha deciso di farmi un disegno, mentre ruba cetriolini sottaceto e noccioline tra i nostri aperitivi da grandi.

La sua mamma le dice che io amo le favole.
Lei mi guarda sospettosa, le viene un po’ da ridere, le favole sono roba loro, io sono un adulto, che ci faccio, io, con le favole?
Le sorrido e le svelo di conoscerne un sacco.
Ok, questo può già essere un dettaglio interessante, il suo sorriso passa dall’indulgente all’interessato. Punto a me.
Le chiedo se a lei le favole piacciano. Domanda retorica, le piacciono eccome.
“Bene! Qual è la tua favola preferita?” le domando.
Mi guarda, ci pensa, poi esclama “Pelle d’asino!”.
Ma tu guarda. E’ la prima volta che la sento come favola preferita.
“Hai voglia di raccontarmela? Io non me la ricordo” le dico, mentendo.
Ricordo come raccontavo le favole io da piccola, mio padre mi aveva persino registrata, avevo un modo tutto mio di vederle e un italiano personalissimo per narrarle. Ma avevo già il concetto di pathos, giuro. Se mi fossi conosciuta da piccola avrei passato ore e ore ad ascoltarmi, trascrivendo tutto. Ero una comica involontaria.
Bianca non è sicura che la mia richiesta sia vera. Tentenna. La esorto.
“Non sono sicura di ricordarmi bene tutte le parole” mi dice titubante.
“Non importa, raccontamela con parole tue”
“Eh, ma se poi dimentico qualcosa?”
“Ce la inventiamo, nel caso”
Questo le piace, la rassicura e la diverte.
Mi prende per mano mentre ci alziamo dai tavolini e comincia.
“Allora, inizia così: a mille ce n’èèèèèèè…”
E canta.

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