Anche durante questo GSSP (il Fare un romanzo iniziato a settembre), gli Scrittori Pigri hanno potuto intervistare tre professionisti del mondo dell’editoria.
È un’occasione che cerco sempre di offrirgli, e di solito scelgo una scrittrice o uno scrittore e due tra editor, editori, agenti letterari, persone sempre preziose e a cui sono immensamente grata per la disponibilità e la generosità con cui rispondono ogni volta.

Le interviste vengono fatte sul GSSP, sono riservate agli iscritti e le rendo leggibili solo sul forum del laboratorio in corso, ma a ogni giro ne pubblico una, con il permesso dell’intervistato.

Ecco per voi quella che gli Scrittori Pigri del GSSP Fare un romanzo hanno fatto in questi giorni a Emanuela Ersilia Abbadessa.

(e se siete tentati di iscrivervi al GSSP Scrittura e Narrazione che inizia a metà gennaio, ricordate che c’è lo sconto fino al 30 novembre)

Laureata in Lettere moderne con una tesi sul carteggio Zandonai-Maugeri, Emanuela Ersilia Abbadessa si è sempre occupata di musica a tutti i livelli, dall’organizzazione di eventi musicali, all’insegnamento.
Dal 2002 ha insegnato Storia della Musica alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania dove è rimasta fino al 2005 anno in cui si è trasferita a Savona dove attualmente vive e lavora.

In campo musicale è esperta delle tematiche belliniane; dal 1990 ha lavorato con la Fondazione Bellini di Catania e presso il  Museo Belliniano di Catania; ha studiato pianoforte e canto artistico come soprano lirico; ha scritto per quotidiani e periodici e ha collaborato con il  Teatro Massimo Vincenzo Bellini  di Catania; ha all’attivo circa settanta saggi di argomento musicologico.

Scrive per il quotidiano “La Repubblica” (edizione di Palermo), per “Il Secolo XIX”, per il web magazine “Midnight” e per il periodico “Notabilis”.

Con il suo romanzo di esordio Capo Scirocco (Rizzoli, 2013) ha vinto il Premio Rapallo-Carige 2013 per la Donna Scrittrice, il Premio Letterario Internazionale Isola d’Elba R. Brignetti ed è stata finalista al Premio Alassio Centolibri – Un Autore per l’Europa e al Premio Letterario Città di Rieti.
Fiammetta (Rizzoli, 2016) è arrivato secondo al Premio Giuseppe Dessì e al Premio Subiaco Città del Libro.
È da lì che viene la luce (Piemme, 2019), liberamente ispirato al fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden, racconta la difficoltà nella definizione dell’identità sessuale.
Questo è il suo sito. – Qui la trovate su Facebook.

1.    Quanto influisce l’amore per la musica e la sua profonda conoscenza nella creazione di uno scritto? Le succede di scrivere avendo come sottofondo mentale una sorta di colonna sonora a dare la giusta enfasi e cornice alla scena che sta creando?

Influisce moltissimo, sia sul piano formale che su quello delle suggestioni. Formalmente, per esempio, costruii il mio primo romanzo, Capo Scirocco, come un melodramma ottocentesco, plasmando anche i personaggi sugli archetipi della grande opera italiana. L’opera fa comunque parte del mio immaginario, infatti tendo a creare un’eroina sul modello belliniano, una comprimaria, un protagonista che nell’opera corrisponderebbe al tenore e un “antagonista” che, in teatro, avrebbe il timbro del baritono. Quanto alle suggestioni, nei momenti di maggior pathos del romanzo, risuona dentro di me una musica e quella cerco di trasformare in parole, anche per questo inserisco spesso musica dentro le pagine: Wagner, Beethoven, Arie d’opera, canti popolari…

Quando scrivo però lo faccio in totale silenzio: la musica è un linguaggio e chi lo comprende non può in alcun modo gestirlo contemporaneamente a un altro. Voi riuscireste a scrivere un racconto mentre qualcuno vi recita a voce alta l’Amleto?

 

2.    Segue un metodo nella definizione dei personaggi? Come li crea? Quanto c’è di storicamente ricostruito e quanto è creatività della scrittrice?

Occupo molto tempo a definire ogni dettaglio del romanzo, quindi anche i personaggi. È un lavoro che faccio quasi tutto in mente, ogni tanto scrivo qualche appunto incomprensibile ad altri. Cerco di immaginare i personaggi nella loro quotidianità, ne spio i movimenti, i piccoli tic, le manie, penso al timbro della loro voce, al modo di camminare, di dormire, di mangiare, di vestirsi. Questo mi dà modo di “conoscerli” e quando mi siedo a scrivere, è come se parlassi di vecchi amici. La verità storica mi occorre soltanto come ispirazione e sulla base di quella immagino e creo una vicenda secondo ritmi e accadimenti che soltanto io decido. Anche usando come fonte di ispirazione personaggi realmente esistiti (è quello che ho sempre fatto fino a oggi), non cerco di ricalcare la loro biografia perché penso che questo sia compito del biografo, a noi narratori non resta altro mandato che raccontare storie.

 

3.    Quanto ritiene sia importante la documentazione su eventi o persone reali nello scrivere una storia?

Fondamentale, soprattutto la documentazione storica e sociale che impegna la maggior parte del mio tempo. Quanto a quella sui personaggi dipende dal ruolo che questi hanno nella vicenda. Faccio un esempio: il mio ultimo romanzo, È da lì che viene la luce, è ambientato nel Ventennio fascista e liberamente ispirato alla figura di un fotografo realmente esistito, Wilhelm von Glöden. Ora: mentre per il mio Ludwig (che adombra Wilhelm) non ho trasferito quasi nulla della sua vera vita nel romanzo se non alcuni tratti, nel caso di Mussolini o di Hitler, che vengono entrambi citati, non potevo inventare, ciò che li riguarda è vero e documentato, insomma aderente alla realtà storica.

 

4.    Vorrei sapere se, nel suo modo di scrivere, la prima stesura di un romanzo avviene sul flusso della creatività, avendo magari pochi punti chiari, oppure nasce dopo una sorta di progettazione della struttura della storia (trama, personaggi, conflitto, ecc.) e, in quest’ultimo caso, qual è il suo metodo e se ne ha sperimentati più di uno per scrivere. E, approssimativamente, quanto tempo dedica alla prima stesura?

La mia prima stesura è molto vicina alla stesura definitiva: quando scrivo ho già tutto chiarissimo in mente, ho centinaia di appunti sui fatti che dovrò inserire e una linea temporale precisa alla follia, un piano della struttura del romanzo definito fin nella scansione dei capitoli. Quindi, il tempo che dedico alla prima stesura è il tempo materiale che mi occorre per digitare le parole, come se la mia mente le dettasse senza soluzione di continuità. Scrivo circa 2000 parole al giorno in quella fase e, quando la lucidità mi accompagna, anche 3000. Se ho altri impegni non ne scrivo comunque meno di 1000. Certo, in seconda battuta magari aggiungo qualche paragrafo, sistemo qualcosa ma il romanzo ha già una definizione completa in ogni parte.

 

5.    Mi chiedo se nel processo creativo, a un certo punto, intervenga un momento in cui letteralmente “ci si stufa”. Mi spiego: mi domando se, una volta che nella mente si sono chiariti tutti i meccanismi della storia e dell’evoluzione dei personaggi, non essendoci più niente da scoprire, la voglia di scrivere venga meno, e se sì, come si supera quel momento.

A me non è mai successo anche perché quando scrivo vivo le emozioni dei personaggi, quindi anche se so cosa affronteranno aspetto di provarlo insieme a loro. Penso poi che se ci si annoierà scrivendo, è probabile che annoieremo anche il lettore. La scrittura per me non è una scoperta di ciò che succederà perché quello lo faccio prima, quando costruisco la storia, è una conferma di cosa deve accadere e mentre questo avviene, io provo in prima persona ogni gioia e ogni dolore di cui sto scrivendo.

 

6.    Quali “regole” si è imposta per riuscire a completare il suo primo romanzo, magari dovendo gestire in parallelo altri lavori o attività?

Una sola: disciplina. Quando scrivo ho la disciplina di un marine. Faccio un planning, mi do delle scadenze e quelle rispetto, senza se e senza ma. Divido la giornata in fasce orarie e so che da una certa ora a un’altra scriverò o farò la spesa o leggerò, o andrò a fare una lezione, o butterò giù un articolo per il giornale. Pianifico, insomma. E riesco anche ad andare al cinema almeno due volte alla settimana!

 

7.    Quali sono state le sue maggiori difficoltà nello scrivere e cosa ha modificato dall’esordio a ora, e perché?

A me scrivere risulta abbastanza semplice, le difficoltà sono più che altro interiori: ho scritto pagine che mi hanno dilaniata. Poi c’è l’eccitazione dello scrivere: mentre sono dentro un romanzo ho l’adrenalina in circolo e non riesco a pensare ad altro, dormo poco e mentre dormo penso ai miei personaggi.

Dall’esordio a oggi penso che la mia scrittura sia cresciuta così come sono cresciuta io, è naturale. Forse ho sfrondato un po’, sono più consapevole degli errori, ma nell’approccio alla fase creativa non è cambiato nulla di fondamentale. Continuo a scrivere bevendo caffellatte.

 

8.    Quanto c’è di personale nei suoi scritti e quanto è frutto della sola creatività?

Tutto quello che scriviamo ci riguarda e tutto è autobiografico. Si può però raccontare se stessi e la propria vita e questo è il tipo di autobiografismo diaristico per il quale io non provo alcun interesse; si possono poi prendere brandelli di sé, disseminarli nei romanzi e in qualche modo universalizzarli perché nel momento in cui li associamo a un personaggio che non siamo noi, possiamo guardarli da un’altra prospettiva. Questo è quello che a volte mi capita di fare. Rita dice una mia frase, Fiammetta pensa della Bellezza ciò che penso io, Mimì considera le donne come le considero io, Ludwig crede nella libertà come ci credo io, Elena si sistema il vestito come faccio io…

 

9.    Il suo ultimo romanzo è ispirato a una persona realmente esistita; mi chiedo se è nata prima l’idea narrativa, alla quale ha poi cercato e trovato un modello ispiratore, oppure la storia è nata dopo aver conosciuto la figura di Glöden. Parimenti per gli altri romanzi, a cui ha dato ambientazione storica: la cornice temporale è essa stessa fonte di ispirazione di una storia o, al contrario, viene sviluppata attorno a un nucleo narrativo di base slegato dall’ambientazione?

Nel caso dell’ultimo romanzo, conoscevo già da bambina la storia del barone e, negli anni, mi si era ripresentata alla mente varie volte. La scelta di spostarla leggermente avanti nel tempo e collocarla nel cuore del Ventennio fascista è nata dal fatto che desideravo rendere più evidente un contrasto: la possibilità di vivere una libertà personale intimissima come quella legata all’orientamento e/o all’identità sessuale in un momento storico in cui le libertà personali erano molto limitate e il modello maschile di riferimento era estremamente muscolare e testosteronico, ovvero l’esatto contrario di quello rappresentato da Ludwig. Sia per questo romanzo che per i due precedenti, le vicende potevano essere ambientate in qualsiasi periodo storico (anche quello attuale) ma, premendomi sempre il contrasto tra il singolo e la società, ho deciso una collocazione consona a rendere più stridente il rapporto.

In Capo Scirocco racconto l’amore proibito tra una vedova trentottenne e un giovane poco più che adolescente, se oggi la cosa costituirebbe un piccolo scandalo, alla fine dell’Ottocento rappresentava un evento scandaloso in maniera preoccupante, qualcosa di cui tutti avrebbero parlato e che tutti avrebbero condannato, da qui la scelta temporale. Così come in Fiammetta: un matrimonio in cui si consuma una violenza sulla donna perché “troppo libera” è, purtroppo, cosa assai attuale ma la libertà di pensiero e di azione della donna, collocata in un periodo in cui alle donne non era consentito nemmeno di votare, ha una forza maggiore, a mio parere.

 

10. Qual è il suo rapporto con l’editing? Si è modificato nel tempo? Com’è stata la prima volta e come è oggi? Come ha inciso/incide sulla sua scrittura?

Per quanto riguarda i miei tre romanzi ho sempre avuto un ottimo rapporto con i miei editor, ho sempre accolto con favore le loro osservazioni e, anzi, dal reciproco scambio credo siano venute fuori riflessioni importanti. I miei testi non hanno mai subito editing imponenti, quindi direi che ha inciso nel senso del miglioramento. Amo che una lettura esterna competente mi indirizzi verso il risultato sperato e, negli anni ho imparato ad asciugare i testi, ho fatto più attenzione ad alcuni “vezzi” della mia scrittura (come ad esempio la maniacalità nel descrivere sequenze di gesti minimi). Il più delle volte, in fase di editing mi sono anche divertita molto, come quella volta che mi fecero notare che ripetevo sempre il fatto che i miei personaggi respirassero! Cosa ovvia, direte voi, ma per me asmatica cronica, il respiro non è affatto scontato e così avevo finito col trasferire nella pagina questa mia preoccupazione per la mancanza d’aria, sottolineando sempre che Tizio o Caio prima o dopo aver fatto qualcosa… respiravano.