Il GSSP è più di un laboratorio.
È un luogo protetto dove ognuno ha la propria stanza e si condividono spazi comuni, è lavoro, scrittura, ma anche chiacchiera, gioco, compagnia.
È un luogo di scoperta, o almeno vorrei che fosse anche questo.

Uno dei valori aggiunti che ho voluto dare al GSSP è la possibilità di incontrare le varie professionalità che lavorano nell’editoria: scrittori, editor, editori, agenti letterari.

Tra le persone che gli Scrittori Pigri hanno intervistato nel GSSP in corso c’è Benedetta Bolis, editor in Rizzoli.
Anche da questa intervista c’è molto da imparare e abbiamo deciso di condividerla con voi.

Benedetta Bolis è nata a Pavia nel 1988 e vive a Milano, dove si è laureata in Filologia moderna all’Università Cattolica con una tesi su Natalia Ginzburg.
Lavora in Rizzoli dal 2013, attualmente come editor alla narrativa italiana.

Le è mai capitato di fare editing a testi che pur scritti in maniera eccellente non riscontravano il suo stesso modo di pensare, anzi, erano diametralmente opposti? E come ha fatto, nel caso, a rimanere oggettiva? 
Sì, può capitare ed è capitato. E bisogna rispettare la voce dell’autore contenendo la propria ingerenza. Il miglior editing si fa quando, attraverso un confronto costante, si riescono a mettere in risalto le qualità di chi scrive e della storia che sta raccontando.
Per arrivare a questo, però, è necessario capire fin dall’inizio la direzione degli interventi che si proporranno all’autore, senza snaturarne in alcun modo il testo e senza far prevalere il proprio modo di pensare. Curare i libri degli altri richiede sempre un gran lavoro di sensibilità e disciplina.

Quanto pesano le “mode” letterarie? Ad esempio mi pare che il genere del giallo di provincia oggi sia forse un po’ ipertrofico (ma chiedo conferma).
Il giallo è un genere della letteratura popolare che per definizione vive di tendenze. Non esiste letteratura davvero popolare senza un’alta concentrazione dell’offerta.
Il sottogenere del giallo di provincia al momento è uno dei filoni forti e racchiude una molteplicità di orientamenti. La sfida dell’editor, e se vuoi anche uno degli aspetti più stimolanti del mestiere, è intercettare autori che, nel mare di proposte, sappiano offrire storie riconoscibili, che soddisfino il gusto del momento, ma che si distinguano per una certa riconoscibilità della scrittura, dei contenuti, dei personaggi. Solo così un libro può emergere e durare nel tempo, anche dopo diversi anni e dopo che il mercato si è trasformato. Le mode contano alla condizione di saperle usare.

Quanto è possibile prevedere il successo di un libro?
È praticamente impossibile, non esiste nessun ingrediente che, da solo, assicuri il successo. È un’alchimia di fattori, e tra questi anche la fortuna ha un peso decisivo.
Nessuna tiratura, nessuno sforzo commerciale o comunicativo di un editore, danno la garanzia del successo. Al massimo, possono creare delle condizioni necessarie ma non sufficienti.
Di certo una storia forte, autentica, una scrittura brillante che ne sostenga l’impalcatura sono gli elementi imprescindibili da cui partire perché l’editore decida di investire su un libro. Come dicevo prima, la capacità di distinguersi spesso è un ottimo punto di partenza.

Cosa le piace del suo lavoro e cosa invece le piace meno?
È un lavoro che richiede la capacità di rinnovarsi costantemente, tenendo sempre gli occhi puntati su quello che succede intorno a noi. Mi piace che ogni libro, e naturalmente ogni autore, sia diverso dall’altro, e quindi che il lavoro non si ripeta mai allo stesso modo, ogni storia è a sé. È un mestiere che richiede una predisposizione ai rapporti umani, bisogna entrare nella testa delle persone, sia per capire le storie che vogliono leggere, sia per quanto riguarda la relazione con gli autori. L’autore spesso lo si scopre, si dialoga sul progetto fin dall’inizio, si impara a conoscerlo lavorando a stretto contatto sul testo e lo si accompagna anche dopo la pubblicazione del libro. E prendersi cura del testo di un altro ti investe di responsabilità. Quindi è un lavoro, oltre a una passione, che richiede empatia e attenzione verso gli altri. Ovviamente questo è il lato bello, ma a volte può essere l’altra faccia della medaglia, con tutto lo sforzo e le difficoltà che ne conseguono: i rapporti umani, le connessioni richiedono tempo o possono anche avere lati faticosi da gestire.
Un altro aspetto che mi piace molto è quello della scoperta. Quando trovo un romanzo che mi colpisce, sento una certa frenesia. Pensare di valorizzare qualcosa che nasce da un altro e che verrà condiviso con una moltitudine di persone significa giocare in squadra, essere complici.

Quali sono i canali che utilizza per “scovare” i manoscritti?
Sicuramente gli agenti letterari costituiscono un canale fondamentale, perché hanno già fatto una prima scrematura e selezionato un testo che può avere del potenziale.
Oltre a loro, guardo il catalogo degli altri editori e le novità pubblicate; le riviste letterarie, i premi, ma anche le classifiche di Amazon, il self publishing e i social network.
Mi è capitato di trovare proposte interessanti anche ai festival letterari, tramite i colloqui con gli aspiranti autori. È una ricerca quotidiana, a tappeto, che non ha regole e non si ripete mai allo stesso modo.

Quanto conta il rapporto diretto con l’autore nella fase di editing?
Il rapporto diretto con l’autore è tutto. Erroneamente si crede che il lavoro editoriale sia un lavoro in solitaria sul testo. In realtà è un lavoro sociale e relazionale, in cui non ci sono tempi fissi e la vita stessa viene coinvolta. Il rapporto con l’autore è una relazione strana perché crea una forte intimità e complicità con persone estranee. Non esiste mai un editing uguale all’altro perché a variare sono le inclinazioni, il carattere, l’indole dell’autore.
Per questo il lavoro editoriale ha una forte valenza psicologica e non può essere fatto con riserva. Occuparsi di un testo è, prima di tutto, costruzione di un legame empatico con colui o colei che quel testo ha scritto.

Cosa succede se di fronte a un intervento sul testo autore e editor la pensano diversamente?
L’ultima parola è sempre dell’autore, ma se si arriva a una difformità di vedute nette, o a una contrapposizione, è stato commesso un errore nella costruzione del patto di fiducia con l’autore. L’editor suggerisce e ispira, non deve mai asserire né contrapporsi.

 

Maurizio Dardano (Stili provvisori. La lingua nella narrativa italiana d’oggi, Roma, Carocci, 2010, pp. 30-31): ha detto Perseguire a ogni costo l’efficacia comunicativa trascurando la correttezza linguistica. Questo è l’obiettivo di alcuni scrittori di oggi. Non va dimenticato che tale espressività spesso riduce o addirittura annulla la facoltà conoscitiva che dovrebbe essere propria del narrare.

Qual è la sua opinione riguardo a questo?
È un discorso articolato e complesso. Rispondo da addetta al lavoro editoriale e non da linguista: penso che ogni scrittore abbia le proprie peculiarità di stile e forma, che hanno origine da fattori diversi (come per esempio il periodo storico, il bagaglio di testi letti, le tendenze letterarie, la provenienza geografica). Un tempo la lingua scritta e il linguaggio parlato avevano due collocazioni chiare e distinte; oggi l’influsso del parlato e la ricerca di un’espressività riconoscibile prevalgono rispetto a un lavoro di ricerca formale classica e un attenersi ai modelli come un tempo. Credo che per un editor sia più interessante avere la possibilità di lavorare su testi tanto diversi anche per stile e forma: l’obiettivo, dal mio punto di vista, dovrebbe essere quello di non trascurare mai la correttezza linguistica, allo stesso tempo valorizzando le peculiarità e l’espressività di ogni autore. Non sempre la normalizzazione della lingua è la strada giusta.

Immagino che la mole di inediti ricevuti da una casa editrice come Rizzoli sia pressoché fuori controllo e che i tempi per una scrematura preliminare siano frenetici: ci sono degli elementi che prende in considerazione per decidere di andare avanti nella lettura per poi, eventualmente, prendere in carico un testo e lavorarci su? E, al contrario, quali sono gli errori più evidenti che le consentono di scartare un inedito con sufficiente sicurezza?
Sì, la mole è indiscutibile ed è difficile prendere in considerazione tutto quello che arriva in casa editrice ogni giorno. Ma già una chiara presentazione aiuta l’editor a considerare la proposta.
Uno degli errori più evidenti è non avere chiaro che progetto si sta portando avanti. Il mio consiglio per iniziare a capire se la trama è efficace è provare a raccontarla in poche parole: il famigerato pitch. Questo è un esercizio che aiuta a renderci conto se abbiamo le idee chiare e se riusciamo a trasmetterle agli altri. Lo si può provare a fare con un amico, un famigliare, un addetto ai lavori quando se ne ha l’occasione.
Un altro degli errori frequenti, soprattutto tra gli esordienti, sono le trame piatte, asciutte, per niente magnetiche. E anche la scrittura trasandata e la scorrettezza linguistica. Avere bene in mente lo svolgimento della storia (la fabula) è fondamentale ed è fondamentale che la scrittura sia curata e al servizio della storia e dello sviluppo dell’azione drammatica.
Altri elementi importanti sono l’intreccio coerente e armonico, il ritmo, e la configurazione di personaggi a tutto tondo.
L’insieme di tutti questi elementi mi spinge a prendere in carico un testo e lavorarci su. Poi c’è una regola: non esiste un plot ideale, esiste un plot in relazione al romanzo che si scrive.

Come ci consiglia di presentare un inedito a una media o grande casa editrice?
Prima di presentare un inedito il mio consiglio è di informarsi e conoscere il catalogo degli editori, per stabilire se la proposta può rientrare in una certa linea editoriale.
Poi sicuramente sono indispensabili una breve biografia dell’autore e una sinossi chiara e sintetica, in modo da permettere a chi riceve la mail o il dattiloscritto di capire da subito di che progetto si tratta.